43. Ricominciare con il Moderno
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

"Vent'anni fa, alcune esperienze dell'architettura radicale italiana furono accolte quasi come scherzi goliardici: quando invece, per la prima volta, sia pure a un livello sperimentale, proponevano di sostituire, finalmente, l'architettura del plastico con l'architettura delle città. Ma quelle esperienze, una decina di anni prima, avevano, anch'esse, avuto un antecedente significativo (e altrettanto ignorato, o messo alla berlina): in una serie di progetti (di laurea, di concorso) appartenenti ad un medesimo filone di ricerca avviato dal professor Giuseppe Samonà, insieme con giovani ricercatori dell'Istituto Universitario di Architettura di Venezia."

Francesco Tentori, redattore capo della "Casabella" di  Rogers, autore di fondamentali studi su Le Corbusier e Pietro Maria Bardi, architetto e urbanista in Italia e in Sud America, professore di progettazione urbana a Venezia, ripercorre quelle esperienze progettuali discutendone con i protagonisti.

Tentori vuole riflettere ancora su quella fase pionieristica perché ritiene che i modelli elaborati siano validi, ma soprattutto perché crede necessario "Ricominciare con il Moderno": riproporre cioè all'attenzione degli architetti i problemi, le contraddizioni, le sfide di un mondo che si avvicina ai dieci miliardi di abitanti e che di quei progetti costituiva già l'orizzonte.

Imparare da Veneziacondensa queste idee attraverso l'esame di alcuni progetti poco conosciuti o oggi dimenticati. Il primo è quello redatto dal gruppo Samonà per il concorso nazionale del Centro direzionale di Torino. Siamo nel 1963 e in Italia è ormai scoppiato il benessere. Le faticose esperienze della ricostruzione postbellica - che avevano avuto un campo di applicazione nei molti edifici dell'Ina Casa - sono alle spalle. L'idea di comunità e di quartiere, le prescrizioni del Manuale dell'architetto o degli opuscoli dell'Ina Casa, il tentativo di disegnare progetti che ricordassero le realizzazioni nordiche di matrice organica o i nostri aggregati rurali, lo sviluppo di una progettazione che tenesse conto anche delle scienze sociali, venivano a rappresentare nell'Italia del boom un retaggio provinciale da "Paese dei barocchi". Ludovico Quaroni, a cui si deve questa definizione, aveva vissuta quella fase e faceva pubblica autocritica non solo a parole, ma anche in un famoso progetto per le Barene di San Giuliano a Mestre in cui proponeva l'esatto opposto di quanto progettato prima. All'ideologia del paese, sostituiva infatti una dimensione territoriale dell'architettura perché i grandi emicicli sul lungomare intendevano essere strutture capaci di dialogare con l'intera laguna.

Giuseppe Samonà aveva scritto alla fine degli anni Cinquanta un testo che divenne il fondamentale punto di riferimento delle nuove idee: L'urbanistica e l'avvenire della città poneva in crisi l'urbanistica tecnica e prescrittiva dello zoningper insistere sul fatto che era l'architettura stessa a fare la città. Alla Carta d'Atene, che riassumeva una visione quantitativa e funzionalistica, si preferivano altre esperienze di Le Corbusier: come il piano Obus, dove una autostrada che conteneva ai piani inferiori abitazioni e servizi si snodava per chilometri lungo il golfo di Algeri. L'architettura era diventava città e dettava i rapporti con la natura, il paesaggio, il già costruito.

Il tema delle grandi strutture terziarie e direzionali delle città italiane (Torino, ma anche Firenze, Roma, Napoli, Bologna) appariva un programma calzante alle nuove idee e proprio il progetto di Concorso del gruppo di Samonà ne costituì una chiara applicazione. "Un solo immenso organismo edilizio fluente e elastico" - scriveva Bruno Zevi - "in cui il processo di caratterizzazione segue le funzioni che, man mano, si precisano e si completano".


 

Un altro progetto pionieristico fu quello per la sistemazione della nuova Sacca del Tronchetto a Venezia. Il gruppo di Samonà propose che tutte le funzioni del terminale ferroviario e marittimo fossero raccolte in due isole artificiali che determinavano una forte e nuova immagine metropolitana. Ma la stessa tensione nel concepire l'architettura come "fatto urbano" avveniva anche quando la scala era limitata al singolo edificio, come negli uffici della sede Anas di Palermo o nella bellissima proposta per i nuovi uffici della camera dei deputati nel centro storico di Roma del 1965.

Questo nucleo di idee (l'identità tra architettura e urbanistica, la grande dimensione, il superamento dello zoning,l'autonomia disciplinare dell'architettura dalle scienze sociali) anticipate nei progetti e nei libri di Samonà si travasarono nel lavoro dei collaboratori e dei giovani docenti veneziani. Tentori ripropone all'attenzione un progetto di concorso del gruppo di Romano Chiviri e Costantino Dardi per l'ospedale di Venezia. Non solo è un ulteriore sviluppo del medesimo ragionamento, ma il fatto singolare, e finora quasi sconosciuto, è che proprio questo progetto fu la base di riferimento per il progetto successivo per l'Ospedale di Venezia redatto dal grande Le Corbusier.

Le idee generate da Giuseppe Samonà hanno iniziato a permeare l'intera cultura architettonica italiana quando, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, Carlo Aymonino e Aldo Rossi hanno elaborato una lettura "architettonica" delle trasformazioni urbane e contemporaneamente hanno realizzato un importante manifesto costruito: le residenze popolari al Gallaratese di Milano. Molte opere si sono susseguite come quella di Valeriano Pastor e collaboratori per l'ospedale di Larino vicino Campobasso, il campus scolastico di Aymonino a Pesaro, la grande corte residenziale di Rozzol Melara di Carlo Celli, il quartiere Zen a Palermo e l'Università della Calabria di Vittorio Gregotti sino al Corviale di Mario Fiorentino, l'edificio di un chilometro che definisce un argine tra città e campagna nella periferia occidentale di Roma.

"Imparare da Venezia", per gli architetti che si sono formati negli anni Settanta nelle facoltà di architettura italiane, divenne d'obbligo: voleva dire riferirsi a una costruzione teorica che da quella Università partiva, tentare di dare risposta attraverso l'architettura a quelle che apparivano le grandi esigenze della società, proporre nuovi modelli di vivere, di costruire, di concepire il rapporto tra architettura e città. Che ai modelli proposti in quella stagione se ne siano - secondo noi a ragione - progressivamente sostituiti altri fa parte della evoluzione del pensiero e delle idee, ma ha ragione Tentori nel ribadire che oggi è proprio la sfida intellettuale e professionale che di quel momento fu il dato caratterizzante a essere superficialmente seppellita da una vacua "architettura del plastico".

Uno dei credi del funzionalismo fu coltivare l'illusione che attraverso un processo concentrato sulla risoluzione di singoli problemi (l'alloggio, il sistema di distribuzione, la distanza tra i fabbricati in rapporto all'altezza, l'uniforme esposizione solare eccetera) si potesse arrivare a creare la città. Ma già negli anni Cinquanta e Sessanta si sperimentò che un processo "dal cucchiaio alla città" non riusciva a reggere negli esiti il confronto con gli ambienti urbani precedenti. È proprio nel ribaltamento di questa concezione sommatoria e analitica che la cultura italiana ha dato un fondamentale contributo e molto grazie alla lezione di Samonà e della Scuola di Venezia.

In realtà Imparare da Venezia lancia anche una speranza. Le idee, i concetti, i progetti possono trasformare la realtà, anche se nel loro farsi sono nebulosi, incerti, contraddittori. Ecco perché, a volte, serve fare a posteriori una cronaca, come questa difficile ma appassionante.
 

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Pubblicato originariamente

Costruire
Editrice Abitare Segesta, Milano. Direttore Leonardo Fiori

Antonino Saggio
LA LEZIONE DI VENEZIA. UN LIBRO DI FRANCESCO TENTORI
Costruire, n.140, gennaio 1995 (pp. 108-109).


Il libro cui si fa riferimento è

Francesco Tentori, Imparare da Venezia, Officina, Roma 1994
 
 

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