31. La via dei
simboli
Alcune opere dell'architettura recente impongono una riflessione.
Frank Owen Gehry ha ultimato nel 1997 il Museo Guggenheim
di Bilbao. Gehry ama Utzon e la Sidney Opera House. E su Jørn Utzon,
nato nel 1918, vi è un ritorno di attenzione. Utzon a sua volta
deve il successo al concorso di Sidney alla chiaroveggenza del giurato
Eero Saarinen, autore di molte opere, tra cui il Terminal della Twa al
Kennedy di New York. Gehry ama anche l'espressionismo di Scharoun della
Philarmonie di Berlino, Ronchamp di Le Corbusier e la famosa macchina strepitante
del Mummers Theater di John Johansen.
Nei primi anni Settanta una giuria audace dà ai
trentenni Piano & Rogers la costruzione di un centro polivalente nel
cuore di Parigi, il celeberrimo Beaubourg. Oggi Piano ha inaugurato
un Museo della Scienza come una nave incagliata nelle banchine di Amsterdam.
Un'altra Arca era stata creata a Londra per la società
Seagram da Ralph Erskine che aveva anche eretto un muro ondeggiante alto
dieci piani - The Byker Wall - che fa segno, simbolo, paesaggio nella ricostruzione
di una parte di Newcastle in Scozia.
Cosa succede? Perché ci interessa questo filo
che parte da Sidney e arriva a Bilbao?
Cominciamo da Utzon, un architetto la cui grandezza è
tale che ancora non è stata del tutto metabolizzata.
Utzon è l'unico architetto che in quel lontano
1956 ebbe l'intuito, l'intelligenza e il coraggio di fare del grande Auditorium
un simbolo. Ma non era il simbolo una delle parole tabù del
movimento moderno? Vediamo come è rientrato in circolo.
L'architettura moderna, almeno nel suo filone sassone
tra Gran Bretagna e Germania, si è sviluppata attraverso una predilezione
per la chiave minore, frammentaria, libera nelle forme e negli assemblamenti
che era tipica dell'edilizia minuta dei borghi, dei villaggi, dei tessuti
medioevali. Questa cifra divenne centrale per innescare la ricerca che
rivalutò l'artigianato e la sua etica e poi, via Hermann Muthesius
e il Deutsche Werkbund, si incanalò nel Bauhaus. Cioè nel
primo movimento maturo nella storia in cui la società industriale
trova, a più di cent'anni dalla nascita, risposta articolata e polivalente:
sul piano estetico, attraverso l'astrazione, la trasparenza, la dinamicità,
sul piano eticofunzionale, con un'aderenza oggettiva ai nuovi bisogni "dal
cucchiaio alla città", sul piano costruttivo e tecnologico.
Come sottolineò Nikolaus Pevsner il percorso da
William Morris a Walter Gropius valorizzò la cifra spontanea e vernacolare,
ma rimosse completamente, quasi come non esistesse, l'altra chiave, l'altra
dimensione del Medioevo: quella legata alla costruzione delle grandi cattedrali,
da Chartres a Notre Dame da Rouen a Salisbury, e allo sforzo di simboleggiare,
attraverso la propensione verticale alla divinità, la volontà
di una città di rappresentarsi in quanto collettività.
"A noi non interessano i monumenti", parafrasando Frank
Llyod Wright, sostenevano gli architetti moderni, e avevano ragione. Infatti
la parola Monumento tra le due guerre, era usata per esprimere la potenza
di uno Stato, spesso dittatoriale, che intendeva magnificare l'autorità,
il comando, la gerarchia.
La Mosca di Stalin, le scenografie di Hitler, la nuova
romanità di Mussolini, ma anche i parlamenti classicheggianti della
nuova Finlandia o la sede delle Società delle Nazioni a Ginevra.
Gli architetti moderni, quelli dei Ciam per intenderci
meglio, avevano problemi ben più stringenti da risolvere (la casa
per tutti, un linguaggio secco, industriale e astratto, l'utilizzo dei
nuovi materiali e delle nuove scoperte costruttive, l'urbanistica e gli
insediamenti) per dilettarsi con queste parate.
Dire a noi non interessano i monumenti, fu storicamente
sacrosanto, anche se si doveva attaccare un architetto come Giuseppe Terragni,
che già negli anni Trenta e sostanzialmente unico in tutto il fronte
moderno, riuscì a dimostrare che era possibile dare un'aura monumentale
e simbolica a un edificio senza ricorrere allo strumentario del passato
ma attraverso un'ibridazione pericolosa quanto magistrale. Giuseppe Pagano,
il campione italiano degli architetti moderni, stigmatizza la Casa del
fascio di Como, anche se in cuor suo sa che Terragni è un genio.
Ma in quel momento, quell'opera era un diversivo: solo sfiorare il tema
della rappresentatività avrebbe contribuito a innescare un arretramento
(come il rinsaldarsi dell'asse Speer-Piacentini e la costruzione dell'E42
a Roma dimostrò).
Ma torniamo ad Utzon. Perché questo giovane architetto,
aveva 38 anni quando progettò Sidney, dieci anni in più di
Terragni quando nel dicembre del '32 disegnò la sua Casa del Fascio,
riesce a fare uno scarto di questa portata?
Diciamo per la compresenza di almeno quattro fattori.
Prima di tutto Utzon è un nordico. E nell'architettura
nordica la presenza del Monumento è linfa vitale: non astrazione
illuminista del potere, ma del matrimonio tra uomo e natura. E Gunnar Asplund
lo insegna senza il minimo dubbio.
In secondo luogo, Utzon ha lavorato con Aalto. Da giovane,
quando ha solo un repertorio neoclassico, Aalto tenta di agganciare i suoi
edifici al paesaggio; negli anni Cinquanta, in progetti come il Politecnico
di Otaniemi ma anche il municipio di Säynätsalo, sembra intuire
che l'architettura può anche rappresentare, ma si ferma sul limite
e anzi in qualche caso cade in un neoaccademismo di maniera.
La terza regione è che in Utzon, velista come
Piano e Erskine, c'è un interesse verso le forme naturali del volo
e del movimento.
Infine, Utzon è un architetto interessato all'uomo
nelle sue diverse manifestazioni sociali, mai alla imposizione della propria
griffe. Sa che opere diverse per scala e programma debbono avere risposte
diverse. Per cui quando fa un gruppo di case (a Fredensborg nel 1962) è
la celebrazione dell'individuo e delle sue diverse aggregazioni che esalta
con una architettura spontanea e popolare, quando fa una chiesa in campagna
(a Bagsærd nel 1976) la tratta come un silos cubico in lamierino
per rivelare solo all'interno un magico spazio fluido, quando deve fare
la nuova sala di concerti di Sidney capisce che deve essere il simbolo
di un continente.
E nonostante la fatica, lo stress, i sabotaggi e i tradimenti
legati all'impresa ci riesce. L'opera è un simbolo, forse il primo
simbolo assoluto che l'architettura moderna è riuscita a creare.
Vi si riconosco gli abitanti, i visitatori, la città,
il continente. È un'opera da questo punto di vista monumentale,
ma che niente ha a che spartire con gli aspetti propagandistici, retori
e bolsi del potere. È un monumento di una collettità che
guarda al resto del mondo e che al domani si proietta con slancio.
Gehry, quarant'anni dopo quel progetto, fa Bilbao. Molte
parole possiamo usare per quest'opera. Per esempio "traiettoria", perché
il messaggio della plastica futurista e la conquista dinamica dello spazio
vi si afferma, oppure "luna meccanica', perché il grande museo rifrange
ludicamente la luce a tutte le ore, oppure "pelle e spazi", perché
l'opera rompe la meccanica corrispondenza tra interno ed esterno, riuscendo
per questa via ad ottenere il suo sbalordivo funzionamento, e altre ancora.
Ma una parola è la vera chiave in questo contesto.
***
Innanzitutto Gehry capisce che il nuovo monumentalismo
è un fatto civico, collettivo, della gente. Mai di un individuo
o di un magnate. "Gehry è calamitato dal clima di rinascita del
XII e XIII secolo" ha scritto Bruno Zevi "Persuaso che si possa contrapporre
al caos (e alle disquisizioni sul caos) un ordine intrinseco da manipolare,
pretende che l'architettura trascini emotivamente" Gehry adora il Romanico
e "crede che l'epoca degli architetti eroi, di Wright e di Le Corbusier,
sia esaurita: "questo è un tempo in cui gente più numerosa
si mescola assieme, per aiutarsi reciprocamente e far funzionare le cose""
Sceglie, è lui che sceglie l'area del progetto,
una intersezione urbana. Un ganglio caotico tra ferrovia, fiume, ponte,
banchine. È una tipica area dismessa che però si può
agganciare alla rivitalizzazione del lungo fiume che l'amministrazione
vuole.
In questa intersezione Gehry inserisce i suoi corpi. Ma
non sono le ali del gabbiano di Utzon che calano nel promontorio, ma una
macchina che si aggancia al contesto come forse nessuna architettura aveva
mai fatto. L'articolazione dei corpi fa strade, banchine, percorsi, entrate
e accoglie i flussi. E la gente vive tutto lo spazio pubblico, ci va di
giorno e di notte, genitori con bambini, turisti, vecchi operai con il
basco e teenager con i pattini. Insomma la sua architettura forma e conforma
l'ambiente come la cattedrale gotica che intesseva attività e formava
con le sue diverse strutture la piazza principale, quella adiacente del
mercato, gli edifici, le zone per le manifestazioni e gli eventi.
Ma se questa lettura può apparire forzata, Gehry
nella manipolazione dei volumi non lascia dubbi. A partire da un atrio
centrale che spinge il visitatore a guardare all'insù e strabiliarsi
come una volta si faceva con le ogive e le vetrate, innesta un grande corpo
oblungo lungo più di 100 metri. È la navata che si insinua
sotto il ponte, e al di la di questo, si alza un volume apparentemente
arbitrario. Una specie di scultura altissima a forma di forcella aperta.
Segno tanto inutile quanto indispensabile, come il campanile
di Giotto la torre di Gehry annuncia l'edificio a chi giunge lungo le banchine
dal centro della città. Aspettiamo che vi si monti un raggio laser
che rintocchi l'arrivo del nuovo millennio.
Ecco che con Gehry si richiude il circolo. Nel movimento moderno è rientrata la cattedrale, è rinata la possibilità di fare un'architettura anche simbolica, anche rappresentativa, anche monumentale. E queste parole non si associano alla magniloquenza accademica del potere, ma alla vibrazione di una società locale e globale, che impone un pellegrinaggio per celebrare la nuova religione laica della cultura. Del Medioevo 140 anni dopo la Casa Rossa di Philip Webb per William Morris, la nuova architettura ha riconquistato anche il valore civico e rappresentativo.
Una domanda per concludere
Questa nuova tensione rappresentativa, civica, collettiva
in una parola simbolica, cosa ha a che vedere con la tendenza alla metaforizzazione
che investe buona parte dell'architettura contemporanea d'avanguardia e
di cui abbiamo già parlato a proposito del Paesaggio e dell'Informatica
(Costruire 12/97 e 5/98)?
Per rispondere paragoniamo due opere di Piano, la prima
e l'ultima o quasi.
Il Beaubourg è un'enorme scatola meccanicaindustriale.
Semovente, (almeno nell'idea iniziale) e cablata, ma comunque meccanica:
una scatola-fabbrica.
Il nuovo museo di Amsterdam invece è prima di
tutto un edifico metafora (è dichiaratamente una grande nave) e
"secondariamente" è anche un edificio che funziona.
Che cosa è avvenuto in questi trent'anni?
È avvenuto che il mondo, e gli architetti se ne
stanno rendendo conto, è mutato e che siamo nell'epoca delle informazioni,
nel pieno della Rivoluzione Informatica. E l'epoca informatica funziona
non più per messaggi assertivi, causa effetto, ma per messaggi metaforici,
traslati. Un edifico non è più buono solo se funziona ed
è efficiente, insomma se è una macchina, ma deve dire e dare
di più. Tra l'altro quando serve, anche simboli. Daniel Libeskind
lo fa a Berlino nel suo straziante Museo-monumento all'Olocausto, come
un muro spezzato e zigzagante. A Roma il danese Kay Fisker ha eretto l'accademia
del suo paese come un monastero che sa dialogare con San Pietro.
Antoine Predock e Abraham Zabludovsky ripensano
al sacro dialogo tra paesaggio e costruzione dell'architettura mesoamericana.
Gehry, Libeskind, Piano sono arrivati in alto anche grazie a Scharoun,
Johansen e Erskine. Utzon è stato il grande e geniale precursore.
Ci sono anche altre vie: quella da Ledoux a Le Corbusier,
quella dell'edilizia cittadina da Piacentini a Aldo Rossi, quella che da
Louis Kahn via Mario Botta arriva a Tadao Ando, quella algida e sola di
Ludwig Mies van Der Rohe, quella che dal Crystal Palace arriva all'High
Tech o quella che ragiona su Las Vegas. Sono strade diverse, altre vie,
altre storie per erodere un tabù. Ma quella da Utzon a Gehry a me
pare la più felice.
Antonino Saggio
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Pubblicato originariamente su
Antonino Saggio
LA VIA DEI SIMBOLI. IL RITORNO DEL MONUMENTO
Costruire, n.182, Luglio-Agosto 1998 (pp. 124-128)
Link
su Gehry
http://www.architettura.it/coffeebreak/20001108/index.htm
su Utzon
http://www.architettura.it/coffeebreak/20001113/index.htm