1. Frank Owen
Gehry. Luna meccanica
Una pagina di Internet si apre con
l’esclamazione "O Luna... O Luna di Bilbao". È in una delle decine
di siti dedicati allo scintillante Museo Guggenheim completato nel
1997 nel capoluogo basco e progettato dall’architetto americano Frank Owen
Gehry, Fog per gli amici.
Centinaia i consensi, i pareri, le opinioni sull’edificio. Riportiamone solo tre, di artisti che hanno la capacità di forare l’immaginazione.
Ed Moses, pittore "di strada" californiano:
"Frank era uno dei nostri e guarda un po’ quanta strada ha fatto. È
di gran lunga il più noto internazionalmente. Chi se lo sarebbe
aspettato da quel piccoletto".
In risposta alla domanda se il nuovo museo funzionerà perfettamente per fruire le opere d’arte, Philip Johnson, deus ex machina dell’architettura Usa: "Quando un edificio è buono come quello, fuck the art" (eufemisticamente, chi se ne importa).
Richard Serra, geniale scultore: "Ha un movimento tremendo, come una nuova versione di Boccioni."
Boccioni? Chi, l’Umberto Boccioni propugnatore della scultura e pittura futurista, morto soldato a 34 anni durante la prima guerra mondiale? Ma allora, anche la nostra cultura ha contribuito.
Serra con l’intuito dell’artista coglie il centro. Boccioni a partire dal 1910 rinnovò completamente la scultura. Se i cubisti avevano infranto la cornice prospettica per una disarticolazione dei piani, egli eliminò il piedistallo che separava l’oggetto dall’ambiente circostante. Voleva creare delle sculture che trasmettessero, come delle dinamo, energia.
Per farlo le sue creazioni anti-piedistallo
dovevano essere una "costruzione architettonica delle masse" che modellano
"l’atmosfera che circonda le cose". In Muscoli in velocità o Forme
uniche nella continuità dello spazio, il movimento si slancia fuori
da sé.
Vedi un breve film di "Forme uniche nella continuità dello spazio"
La potenzialità di queste Sculture di ambiente non hanno generato una vera sperimentazione in architettura. Il messaggio rimase quasi inesplorato e la bottiglia che lo conteneva mai realmente aperta. Il manifesto dell’architettura futurista di Antonio Sant’Elia si mosse più sul piano dei contenuti (centrali elettriche, viadotti, ascensori, rampe, eccetera) che sulla individuazione di una legge formativa che captasse le linee dinamiche di Boccioni, il Costruttivismo russo teorizzò l’assemblaggio dei volumi e le spirali di Tatlin rimasero un sogno, alcune opere come la Torre Einstein di Erich Mendelsohn o la cappella di Ronchamp di Le Corbusier usarono la componente espressionista di Boccioni invece di quella spaziale, John Johansen, e siamo arrivati al 1969, costruì il suo Mummers theater con un processo di nuovo assemblatorio pur se aperto nello spazio, più che plastico.
È solo Gehry che capisce sino in fondo la parola futurista "traiettoria".
Le direttrici protese nello spazio, in Boccioni come in Gehry, sono sì rettilinee, ma nella tensione a fendere l’aria si deformano. La retta diventa arco, parabola, appunto traiettoria.
Questa è la prima cosa che colpisce,
il centro formativo dell’opera di Gehry. Come Boccioni il suo obiettivo
è fare una scultura di ambiente ma questo può essere fatto
solo con una specie di urbantecture ("urbatettura" la chiamerebbe
Bruno Zevi)
Gehry sceglie per il progetto un’area
industriale semi abbandonata tra il centro, le nuove espansioni periferiche
e che si snoda lungo il fiume. Interconnette i tre poli dimostrando come
con una concezione urbana e plastica al contempo si possa valorizzare un’area
di basso valore, risolvere un sito derelitto, riagganciare la città
al suo fiume, la periferia al centro. I corpi si avvinghiano e si slanciano
con virulenza meccanica, ma creano cavi, piazze, banchine attrezzate, luoghi
per la gente.
La grande opera è già un simbolo. Ed è un simbolo mondiale, che vale un pellegrinaggio. Come Chartres e Notre-Dame è una cattedrale, una rappresentazione della parte migliore del nostro essere oggi. Perché oggi il museo come simbolo pubblico ha preso il posto delle chiese. L’investimento di 180 miliardi di lire per Bilbao (parecchio meno della sola copertura dello Stadio Olimpico di Roma, 220 miliardi, e una piccola frazione dei 3500 Miliardi stanziati per il Giubileo) è anche un affare perché il pellegrinaggio è un obbligo nel nuovo consumo culturale (o neo-spirituale?) di oggi. E ha ragione Johnson, i milioni di persone che lo visiteranno andranno in primis per l’architettura.
Il sogno di Boccioni, si tramuta in realtà attraverso Gehry. Ma Gehry a sua volta è un tipico risultato della libertà che solo in America è possibile.
Povero ebreo arrivato a Los Angeles dal Canada nel 1947, guida un camion per mantenersi agli studi. Dopo la laurea vive lavorando negli uffici di architetti affermati e solo nel 1962, a 33 anni, riesce ad aprire un proprio studio. Per quindici anni fa il professionista, sull’onda del boom edilizio della west coast, ma a 49 anni decide di ricominciare. Licenzia le 40 persone dello studio e decide di non accettare più compromessi. Ricomincia daccapo con minuscole commesse ma inseguendo la sua vera passione. L’arte. Non quella aulica e blasonata, non quella in doppiopetto di Richard Meier, ma quella dei sandali, della camicia fuori dai pantaloni, del suo essere sempre spettinato, della ricerca di se stessi. Cerca con i suoi amici pittori pop nel mondo povero degli scarti e capisce che c’è un immensa vitalità in quello che chiama cheapscape, il paesaggio povero e abbandonato delle periferie di tutto il mondo.
Passo dopo passo fa breccia. Una grande mostra organizzata da una donna coraggiosa, il critico Mildred Friedman, lo lancia in tutto il mondo nel 1986. Dopo verranno i premi e le commesse prestigiose. In Europa costruisce a Parigi, a Praga, a Barcellona, in Germania, in Svizzera. (Ma, "Nemo propheta in patria" ha infinite e ancora aperte amarezze a Los Angeles nella realizzazione dell’Auditorium Disney).
Torniamo a Bilbao. L’idea di Boccioni è una scultura architettonizzata, Gehry fa invece una architettura scultorizzata. Vogliamo dire che in Boccioni l’idea degli interni abitabili è assente, mentre l’opera di Gehry è tanto forte all’esterno quanto all’interno.
Un atrio di 50 metri di altezza (che
lancia un lontano abbraccio al grande cavo del museo madre di New York,
il Guggenheim di Frank Llyod Wright completato nel 1959 a forma di spirale)
è uno spazio assolutamente incredibile, plasmato, contorto, aperto
alla luce e ai flussi. Da questo centro si dipartano i corpi espositivi,
i servizi, le librerie, le zone di ristoro. Perché il museo crea
oggi spazi per la gente tanto fuori che dentro. Consente di leggere un
libro, accedere ai media più diversi, chiacchierare con un panino
insomma vivere dentro il museo scegliendo il grado e il tipo di coinvolgimento
che si vuole con l’arte. Gli interni sono sempre vivissimi, plastici, strabilianti.
Fanno guardare a testa all’insù come nelle cattedrali e trattenere
il respiro. Un grande corpo allungato e arcuato, alto 30 metri e lungo
più di 100, ospita le grandi installazioni e si incunea sotto il
ponte che borda l’area. E accanto al ponte, come una vera cattedrale contemporanea,
non vi può non essere un campanile. Quasi inutile, come quelli antichi,
quanto assolutamente indispensabile. È una torre per la vista che
l’architetto realizza come una forcella slanciata verso il cielo.
Il rivestimento in pannelli di titanio luccica, splende, rimbalza la luce a tutte le ore e la rifrange sull’acqua. Ecco perché Luna, Luna di Bilbao.
Ma non erano i futuristi che dichiaravano
"Noi vogliamo uccidere il chiaro di luna"? Sì, perché volevano
proiettare il mondo al domani, eliminare i patetismi ottocenteschi e le
decadenze. Non potevano pensare, non potevano neanche immaginare, forse,
che un architetto americano ottanta anni dopo avrebbe potuto realizzare
una gigantesca luna meccanica, avrebbe fatto una cattedrale per celebrare
l’arte di oggi, l’avrebbe agganciata a un sito industriale per rilanciarlo
e con essa tutta la città, avrebbe creato dei fantasmagorici spazi
per usare l’arte in maniera viva "anti-museale", avrebbe saldato in una
nuova sintesi paesaggio industriale e natura di fiume e di cielo.
Il ragazzo Boccioni, crediamo, sarebbe orgoglioso di quel piccoletto di Gehry e di essere ricordato come uno dei suoi padri.
Antonino Saggio
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Pubblicato originariamente su
Diario della settimana
Direttore Enrico Deaglio, Radiosa Aurora, Roma
Frank
O. Gehry Architetture residuali
Testo&Immagine, Torino 1997, (pp-96).
Collana "Nuova Universale di Architettura"
Direttore Bruno Zevi.
Nuove reti. Frank Gehry a Times Square
Il Progetto n.2, Febbraio 1998 (p. 17).
Il libro cui si fa riferimento nell'articolo è
Coosje Van Bruggen, Frank O. Gehry,
Guggenheim Museum Bilbao,
Guggenheim Museum Publications, New
York, 1997
Link
http://www.pritzkerprize.com/gehry.htm
Una selezione di opere dalle pagine del Premio
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